A distanza di qualche settimana dall’evento videoludico dell’anno, apriamo il Vaso di Pandora sulla premiazione di Elden Ring e spieghiamo come Merito e Reputazione, talvolta, risultino essere attori inconciliabili.
Il sipario sull’evento videoludico più seguito dell’anno è calato ormai da diverso tempo e leggere molte righe su questo argomento potrebbe farvi storcere il naso, pensando ad un intervento “fuori tempo massimo” a proposito di una faccenda ormai conclusa.
Ma questo buffo mondo di pixel colorati presenta una realtà alla quale sono molto legato, emotivamente e professionalmente.
L’ordine di pensieri necessario a scrivere di questo argomento, come tutte le ottime idee (o le pessime) necessita di un adeguato tempo di maturazione, per evitare che il proprio giudizio si lasci influenzare dalla famigerata “sindrome degli Oscar”, una bizzarra circostanza in cui un premio prestigioso (forse il più prestigioso) ci convince ad attribuire inconscia ed indiscutibile legittimità ad un vincitore che non solo non avremmo considerato degno ma che, anzi, avremmo potenzialmente escluso dalla rosa dei candidati.
Come se fosse il premio stesso ad attribuire al vincitore il merito necessario per poterlo ricevere.
Assurdo, vero?
Eppure…
Fino a che punto il premio annuale più desiderato in ambito videoludico può sancire, in valore assoluto e con argomentazioni indiscutibili, la bontà di una produzione, tenendo conto di tutti gli aspetti tecnici ed artistici?
E fino a che punto l’indiscussa qualità di un titolo può essere ridefinita in base al fatto che un premio così importante le venga assegnato oppure no?
L’intera industria videoludica e buona parte della stampa di settore (quantomeno quella più blasonata) sembrano proprio pendere indiscutibilmente dalle labbra di Geoff Keighley e dall’altisonante voce che ogni anno acclama ed incorona il Sovrano Assoluto di questo mondo, composto di texture.
Una volta spenti i riflettori e sciolti i fastidiosi e stretti cravattini che abbelliscono i completi degli invitati all’esclusiva cerimonia, anno dopo anno, sembra insinuarsi sempre più insistente quella vocina che sussurra ossessivamente (perlomeno a noi e pochi altri) il quesito che apre questo articolo.
Ma la risposta è ben diversa da quella che potreste pensare e dovrete leggere tutto l’articolo per scoprirla.
Piccolo Spoiler:
In questo articolo non leggerete agguerrite invettive, volutamente impopolari, con lo scopo di alzare il tono della voce ed ottenere visibilità, aggredendo un prodotto universalmente riconosciuto come di alto valore artistico.
Noi stessi abbiamo premiato Elden Ring con un generoso ma meritatissimo 4.25/5 nella lunga recensione che ho scritto con il supporto del nostro capo-redattore Giuseppe ed il prezioso aiuto di Paolo ed Oreste.
Quindi, mettetevi comodi e godetevi (se volete) questa garbata ma mordace disamina.
Il peso del Capolavoro
Nell’intero mercato del videogame, sono poche le realtà alle quali si può attribuire insindacabilmente il ruolo di figure di riferimento.
Si tratta di Game Designer e Developer che hanno arricchito l’industria di innovazioni tali da risultare dei veri e propri punti di svolta, introducendo meccaniche ludiche o metodi di narrare una storia spesso precedentemente ritenuti inarrivabili o inconciliabili con il medium stesso.
Attraverso il loro operato, questi sviluppatori hanno presentato titoli che hanno cambiato il concetto di videogame in meglio e per sempre, sancendo un Prima ed un Dopo rispetto alla pubblicazione dei loro prodotti così tremendamente innovativi ed ispirati.
Ma è dopo questa fase che il lavoro risulta davvero difficile.
Una volta che il pubblico ha reagito a stupore ed incredulità iniziali e ha normalizzato le sue reazioni per affrontare finalmente il prodotto e sviscerarlo nei minimi dettagli, per lo sviluppatore si avvicina il momento probabilmente più importante e complesso della sua carriera: riuscire a conservare lo standard qualitativo raggiunto con il recente capolavoro e, cosa ancora più importante, mantenere costante e continua la curva di miglioramento produttivo dimostrata con l’ultimo titolo pubblicato.
È come una promessa silenziosa e mai pronunciata; l’utente finale, mentre si delizia con il giocone appena sfornato, non si rende conto di diventare a poco a poco schiavo di quel livello di qualità e, quasi del tutto inconsciamente, trasforma ed affina progressivamente i suoi gusti in attesa del prossimo, migliorato, gioiello che lo sviluppatore sicuramente sfornerà.
E, di solito, non succede.
Pensate a quella band che avete sempre amato visceralmente, quella che definite “il mio gruppo preferito in assoluto”. Tutti l’abbiamo (…se ascoltate musica. Se non la ascoltate, la vostra anima è grigia e vuota e potete pure smettere di leggere questo articolo perché è intriso di emotività, e non fa per voi).
Tutto meraviglioso, fino al momento in cui esce un album che definiamo “poco ispirato”, dopodiché ne arriva uno “noioso”, infine uno “sempre uguale” e finiamo col dimenticare quella band che tanto ci ha dato e che ora rappresenta solo un’ombra della creatività che ci aveva stregati all’inizio.
E se, in realtà, fosse colpa nostra?
Il difficile percorso verso l’Eccellenza
In ambito artistico, mantenere la curva di creatività che ha condotto alla creazione di un capolavoro è estremamente difficile per il semplice fatto che il produrre qualcosa di eccellente non richiede uno sforzo costante ma esponenziale.
Ebbene sì: la dedizione all’eccellenza richiede che lo standard sia alzato, anche di poco, ad ogni lavoro dal momento che il fruitore si abitua a volerne sempre di più, ad avere tra le mani un titolo che sia sempre migliore del precedente.
Spesso, la nostra identità di sedicenti esperti del medium, di clienti d’eccellenza e di cultura smisurata non è che una pia illusione.
E ciò ci conduce irrimediabilmente a confondere sensazione ed emozione, sfida e divertimento, coinvolgimento con dipendenza, trasformando il semplice e genuino apprezzamento nel tossico accanimento estremista che trasforma il nostro passatempo preferito nel veicolo univoco ed insindacabile per valutare il nostro “giocare” migliore di quello di altri, tramutandoci in niente più che semplici cultisti di una diffusa ma elitaria religione oscurantista.
Per questo è colpa nostra.
Perché talvolta le nostre pretese contraggono debiti che la nostra cultura videoludica non è in grado di saldare.
Pigro
I creatori di Elden Ring, non si fanno irretire dal circolo vizioso appena descritto.
La loro maestria risiede anche nell’aver trovato (o meglio: ideato) un metodo di produzione unico nel suo genere grazie al quale si delinea una soluzione piuttosto banale ma dannatamente geniale.
Limitare al minimo l’innovazione all’interno di una saga videoludica, gravando (o, meglio ancora, evitando di sgravare) il titolo da imperfezioni o leggerezze anacronistiche e piuttosto banali che la saga stessa si porta avanti da più di un decennio.
Tali imperfezioni vengono poi occultate molto sapientemente dietro ad un velo narrativo criptico e imperscrutabile in modo che sia il giocatore stesso a vederle come una più che giusta penitenza per poter finalmente capire dove il gioco li stia conducendo.
E, finalmente, poter iniziare a divertirsi.
Benché questa mistica ricetta abbia prodotto nella saga dei Souls titoli davvero memorabili, è quasi colpevole da parte nostra (in qualità di letteratura) il voler ignorare la manifesta pigrizia creativa dietro alla quale FromSoftware sembra voler nascondere l’effettiva situazione di Elden Ring di non essere affatto al passo con i tempi.
E non in quanto capitolo della saga, ma semplicemente in quanto titolo pubblicato nel 2022.
Arrogante
Non voglio promuovere un trattamento ingiusto: Elden Ring merita (la maggior parte de)gli onori che ha ricevuto, ma fallirei miseramente la mia missione informativa se non fossi dannatamente onesto con tutti voi, nel bene e (soprattutto) nel male.
Nel 2009, Demon’s Souls segnò un’epoca, di fatto inventando un genere videoludico responsabile di aver generato, al giorno d’oggi, una progenie tale da rivaleggiare con il prolifico Shub-Niggurath in persona o Capro Nero dei Boschi, per amici e conoscenti.
Oppure no?
È il 2001 e, nell’assolata Spagna, i timidi Rebel Act Studios pubblicano un piccolo gioiellino intitolato: Severance: Blade of Darkness.
Per l’epoca è un titolo piuttosto avveniristico: vanta una grafica molto al di sopra della media con texture ambientali eccezionalmente rifinite, un sistema di illuminazione dinamico, ombre degli oggetti calcolate in tempo reale ed è in assoluto il primo prodotto ludico a presentare effetti di rifrazione su superfici liquide in movimento.
In onore del titolo dato alla produzione, poi, una delle caratteristiche più peculiari è il fatto che, in base all’arma impugnata, sia possibile effettuare (e subire) mutilazioni molto precise utilizzando, inoltre, gli arti stessi presenti sul terreno come armi improvvisate.
Inutile specificare che fosse necessario un sistema piuttosto potente per vederlo girare al meglio, ma i suoi punti di forza non finiscono qui.
La narrativa non eccelle per originalità, va detto, ma il cardine della produzione è l’impianto ludico che si basa su un sistema di combattimento a classi (4 disponibili) complesso e generoso di combinazioni, sfidante e ricco di armamenti, ognuno con le sue abilità speciali, contornato da un Level Design incredibilmente ispirato.
Tutte le caratteristiche concorrono a strutturare un Action-Rpg con sezioni ostiche (vi ricorda qualcosa?) ma incredibilmente solido e piuttosto longevo a cui molti cultori guardano come padre spirituale del genere Soulslike.
Hidetaka Miyazaki non risulta si sia mai espresso a riguardo ma le numerose ispirazioni sono evidenti.
A causa di scadenti operazioni di marketing, Severance: Blade of Darkness non ebbe purtroppo il successo meritato (soprattutto in patria ed oltreoceano), Rebel Act Studios chiuse solo un anno dopo il rilascio ed il titolo cadde quasi nel dimenticatoio ma dal 2021 è disponibile su Steam e GoG una versione completamente rimasterizzata, mentre è stata rilasciata una versione su Nintendo Switch nel 2022.
Come anticipavo, non voglio risultare ingiusto e, quindi, ecco il secondo tuffo nella memoria:
Ancora prima, nel preistorico 1994 e ad opera di una giovane FromSoftware, l’oscuro King’s Field fa la sua comparsa su Playstation nel mercato giapponese.
E lì soltanto.
Un criptico RPG in prima persona nel quale il protagonista parte alla ricerca del perduto padre, aiutato da numerose armi e diversi poteri magici che prosciugheranno specifiche barre di Stamina con l’utilizzo, rendendo il gameplay complesso ma divertente.
Il gioco, vista la sua qualità produttiva e le meccaniche parecchio complesse per l’epoca, ottiene molto successo, convincendo FromSoftware a sviluppare ben 5 ulteriori capitoli che arricchiranno il mercato fino al 2006.
Le basi per preparare il pubblico al concetto di Souls erano state ormai abbondantemente introdotte ma, se vogliamo cercare un concreto padre della saga, dobbiamo guardare al validissimo Shadow Tower del 1998.
Punti esperienza con i quali far crescere il proprio personaggio, specifici nemici la cui sconfitta aumenta determinate statistiche, durabilità degli oggetti utilizzati e nessuna mappa per orientarsi sono tutte caratteristiche proprie di Shadow Tower che costituiranno alcune basi sulle quali dare vita all’epopea che tutti conosciamo.
Ignorando ispirazioni esterne e considerando solo casa FromSoftware, arriviamo a scavare sino al lontano 1994 per trovare elementi che convergono (e spesso giungono in eredità) ai moderni Souls e, più recentemente, nell’ultimo Elden Ring.
Lo stesso Eternal Ring del 2000 sembra voler profetizzare ben 22 anni prima la venuta di quello che molti (anche e soprattutto all’interno della stampa specializzata) hanno senza troppe riserve acclamato come il Messia di questa vituperata generazione di videogame.
Ma, tra le lettere della mia bellissima tastiera retroilluminata, la domanda che scalpita per uscire è tremendamente opportuna:
“Fino a quando FromSoftware vorrà affondare le sue blasonate ed ingioiellate mani nel calderone dell’auto-citazionismo e cospargere ogni sua futura produzione dell’appena riesumato contenuto, spesso senza neanche l’accortezza di ripulirlo dalla polvere accumulatasi negli anni?”
O, forse, una domanda appena più centrata sull’obiettivo:
“Fino a quando i sopra citati cultisti di questa chiesa diffusa ma elitaria pregheranno di sedere ancora ed ancora alla medesima mensa, quando è chiaro a tutti gli altri che le ricche pietanze, ormai, si sono raffreddate da tempo?”
Sussiste una linea fragilissima, appena sotto lo spettro del visibile, che oscilla tra l’essere fedeli ad un prodotto, ad un Brand che funziona (perdonate l’anglicismo) ed il riproporre le medesime vincenti ma trite meccaniche prive di alcuna innovazione, nascondendone gli evidenti difetti sotto l’appariscente mantello porpora bordato di armellino, indumento tipico di colui che regna incontrastato.
Il Re è nudo, lunga vita al Re!
Ci sono svariati motivi per i quali Elden Ring è stato insignito del titolo, ma altrettanto numerose sono le motivazioni a causa delle quali la corona sobbalza goffamente ad ogni movimento brusco, quando la prospettiva d’osservazione cerca di sollevare il pesante sipario di velluto rosso e dare uno sguardo a ciò che è nascosto dietro alle quinte.
Il mondo di gioco è vasto e meraviglioso e in più di un’occasione presenta scorci degni di un affresco, grazie ad una direzione artistica magistrale che sostiene da sempre tutte le produzioni FromSoftware ma in che proporzione il peso di questa caratteristica riesce a distogliere la nostra attenzione da un elemento che, paradossalmente, è molto più significativo ma, a quanto pare, anche parecchio meno evidente?
Tenetevi forte, perché questo scossone potrebbe farvi perdere l’equilibrio:
Il mondo di gioco è, sostanzialmente, vuoto.
Non voglio che ciò venga frainteso:
La mappa è vastissima e ricca di attività da portare a termine ma il tutto è riconducibile a poche differenti opzioni:
- Gruppi di nemici
- Boss opzionali
- Legacy dungeon
- Sotterranei e cripte
- Qualche NPC
Immaginando, poi, l’Open World senza le orde di nemici che vagano da un luogo all’altro e pronte ad aggredirci brutalmente, la mappa risulta effettivamente vuota.
Ma vuota per davvero.
Ad eccezione di qualche statua che addita cripticamente un sotterraneo nei paraggi, la narrativa ambientale e le interazioni sono quasi del tutto assenti, lasciando il giocatore e la sua goffa cavalcatura liberi di fluttuare quasi su una dimensione parallela rispetto a quella del mondo vero e proprio, avvicinandosi ad esso talvolta in modo incredibile, ma senza mai toccarlo davvero.
Abbiamo vituperato a lungo e reiteratamente il chiacchierato Cyberpunk 2077, accusando il mondo di gioco in cui è ambientato di essere nulla più se non un enorme parco divertimenti che tiene le attrazioni spente e che cela, dietro alla bellissima ma inanimata scenografia, null’altro che misere e magre impalcature di sostegno il cui squallido segreto è ben celato alla vista, fino al momento in cui non si decide di avvicinarsi e toccare con mano.
Elden Ring soffre, sostanzialmente, della medesima lacuna con la differenza che, per un affezionato dei Souls, tutto ciò non rappresenta minimamente un problema e, anzi, è ben consapevole di aspettarselo.
Ed è forse proprio questo l’aspetto più grave di tutta la faccenda.
Il punto più alto (ed unico) in cui la mappa subisce una nostra interazione (indiretta) e ne viene modificata è il momento in cui la cometa richiamata dalla morte di Radahn si schianta nella zona di Liurnia, provocando un enorme cratere ed aprendo la via verso il prosieguo dell’avventura.
Davvero suggestivo ma, indubbiamente, già visto.
Molto interessante, poi, la trovata delle Torri-Rompicapo ma il loro esiguo numero (appena sette) ed il fatto che l’interazione con esse si limiti al semplice superamento di una barriera posta all’ingresso, ne limita di molto il potenziale confinandole alla semplice funzione di Hub di interazione momentanea ed autoconclusiva.
L’Interregno ci parla in continuazione, attraverso la sua straordinaria simbologia, i suoi impietosi carnefici e le complesse architetture degli insediamenti, ma è un linguaggio sconosciuto, spesso oscuro e, talvolta, semplicemente e volutamente criptico fino al punto di sospettare che, dietro all’enigma, in alcuni casi, non si celi assolutamente nulla se non il desiderio dello sviluppatore di volerci impegnati ad arrovellarci.
La capacità di Elden Ring di nutrire senza sosta la nostra Sospensione dell’Incredulità è quasi incomparabile in ambito videoludico ma, a maggior ragione, può capitare che la nostra presa con la realtà ci colpisca in faccia violentemente e senza preavviso in ogni momento in cui tutto questo incredibile impianto fallisce, frantumandosi su sé stesso, spesso in modo banale e, proprio a causa della meraviglia che ci ha abituati ad aspettarci, parecchio deludente.
Il riciclo di Asset (spesso addirittura da precedenti produzioni) e texture è evidente e quasi sfacciato ma ciò che ci riporta miseramente coi piedi per terra è l’inspiegabile scelta di voler riutilizzare anche alcuni modelli di nemici, trasformandoli da semplici avversari che popolano la mappa in veri e propri Boss o, addirittura, riutilizzando lo stesso NPC per rappresentare alcuni avversari molto importanti anche ai fini della trama principale.
È capitato di scontrarsi con mastodontici Runebear, avversari davvero ostici, non rari in alcune zone della mappa e di affrontare in seguito una versione potenziata di questi ultimi, più grande ed agguerrita ed a guardia di una caverna.
Un vero e proprio Mini-Boss, insomma.
Tralasciando il discorso relativo alla scelta di inserire un nemico di tali dimensioni all’interno di un’area di gioco appena poco più grande di quest’ultimo e dei conseguenti problemi di gestione di una telecamera che da sempre rappresenta un vero e proprio scoglio produttivo per tutti i lavori di FromSoftware, rimaniamo stupiti e delusi nel verificare che un nemico tanto formidabile non abbia meritato un minimo lavoro di adattamento sulle texture o anche solo qualche dettaglio ambientale che ci spiegassero il motivo per il quale tale avversario difenda quel luogo specifico.
Come molti altri NPC preposti a cercare di sconfiggerci, la sua funzione è semplicemente quella di essere lì e non da un’altra parte.
Un mero riempitivo geografico.
La teoria della relatività espansa
Non spaventatevi, non intendo affrontare complesse dissertazioni di fisica teorica nel tentare di spiegare il funzionamento dell’Universo che ci circonda.
Come spesso accade, però, l’osservazione (anche involontaria) di un fenomeno che interagisce con noi si trasforma in bagaglio di esperienza e, nel ripetersi di queste interazioni, con il metodo possiamo addirittura arrivare alla formulazione di una Teoria.
È semplicemente quello che cerchiamo di fare, scrivendo articoli o recensioni: il trasformare l’esperienza diretta in spunto di comunicazione con lo scopo ultimo di veicolare al lettore, attraverso le nostre parole, sensazioni che si avvicinino il più possibile alle emozioni da noi provate durante il contatto con ognuna delle iterazioni di questa vituperata, spesso fraintesa ma popolarissima forma d’arte che è il videogioco.
Ritorno, allora, all’irraggiungibile genio di Einstein quando parlo di emozioni ed il modo in cui esse trascendano, spesso, dimensioni che amiamo considerare elementari e familiari.
Nella sua teoria della Relatività Generale del 1916 il fisico tedesco riuscì a chiudere il cerchio delle sue ipotesi unendo il concetto di gravità di Galileo e Newton alla sua teoria, arrivando a comprendere come la gravità stessa, in realtà, trascenda le dimensioni fisiche.
Avvicinandoci ad un prodotto totalizzante quanto può essere un Elden Ring, quindi, è inevitabile affrontare l’analisi volendo utilizzare un’unica unità di misura che denoti la grandezza di ciò che stiamo sperimentando e, così come per Einstein fu la gravità, la chiave per noi è proprio quella delle emozioni.
Grazie a tutto ciò, è inevitabile capire ed affermare che le emozioni trascendono le dimensioni fisiche, permettendoci di comunicare attraverso medium puramente meccanici come può essere un testo scritto su un sito web.
Lo scopo di questa dissertazione?
Dare a Cesare ciò che è di Cesare e, in questo caso, ciò che è di Miyazaki:
Elden Ring, per quanti difetti io stia esprimendo in questo articolo, ha l’innegabile merito di saper veicolare un ricco bagaglio di emozioni e nessun tipo di critica alla sua struttura di Game Design potrà mai distruggere tutto ciò.
Il mastodontico (seppur anacronistico) lavoro di FromSoftware soffre e beneficia di una dualità impareggiabile che lo fa oscillare in equilibrio instabile ma perfettamente equanime tra la pesante zavorra delle sue vetuste imperfezioni ed il leggiadro bagaglio artistico ed emozionale che lo eleva (a suo modo) a pietra miliare di un genere del quale nessun altro titolo, al momento, potrebbe far parte.
Potrebbe sembrare una vittoria di Pirro ma, in realtà, è un’unicità di eccellenza.
La sindrome di Stoccolma
Cosa ci conduce, quindi, a rimanere perdutamente ed inequivocabilmente innamorati di qualcosa che ci fa inevitabilmente soffrire?
Per rispondere a questa difficile domanda bisognerebbe analizzare di quanti e quali tipi di sofferenza si stia parlando.
Limitatamente all’argomento Elden Ring, ho personalmente evidenziato ed isolato due distinte dimensioni nelle quali sofferenza e frustrazione sono inconfondibili e palpabili.
Il primo livello, ahimè, rappresenta la frustrazione esterna alla dimensione ludica.
Ci troviamo indiscutibilmente davanti ad un prodotto che innova davvero poco, trascinando dietro alle stanche membra del marchio Souls una pesante zavorra di imperfezioni, ricicli e sbavature di programmazione che potrebbero tranquillamente affossare un più modesto concorrente che non gode di sangue blu.
Dal lato meramente ludico, invece, la sofferenza sperimentata è parte dell’esperienza stessa.
Un feroce e impietoso percorso di formazione nel quale o si prevale o si muore, gioendo anche solo per un passo posto appena più avanti di quello precedente.
In altre produzioni queste due differenti dimensioni di disagio sussisterebbero in sistemi paralleli e del tutto scollegati tra loro garantendo, anzi, alla frustrazione derivante dalla scarsa pulizia del prodotto un ruolo molto più marcato e pregnante, rischiando di inficiare la buona valutazione complessiva del prodotto stesso.
Nella dimensione che chiameremo “Dimensione Souls” ritroviamo, invece, un’inspiegabile unificazione delle due realtà. Spesso la sconfitta del nostro personaggio sopra citata avviene a causa dei limiti produttivi già accennati ma la nostra religione ci impone (e lo accettiamo di buon grado) di soprassedere a tali limiti e, anzi, eleggerli a metro di giudizio per i nostri successi.
Qualunque dettaglio, previsto o imprevisto, interno al gioco o derivante da bug o glitch, concorre ad aumentare il livello di sfida proposta rendendo la nostra vittoria ancora più sudata e, perciò, ben più meritevole.
Da qui, il parallelismo con la Sindrome di Stoccolma.
Sappiamo di soffrire, ne conosciamo il motivo e la causa, ma VOGLIAMO che questa sofferenza prosegua ed aumenti poiché fa parte dell’illusione nella quale amiamo trovarci imprigionati.
E guai a qualunque miscredente che osi distoglierci (magari in buona fede) da questa illusione, indicandocene i confini.
Sia arso vivo sulla pira dei fallimenti.
Rimaniamo quindi inermi di fronte alla magnificenza di queste convinzioni.
Nulla può scalfire una dottrina tanto radicata ed inattaccabile come quella nella quale i confini logici che farebbero svanire l’illusione sono piegati a tal punto da fungere da trampolini per sentirsi più elevati rispetto alle masse di videogiocatori non indottrinati che cercano di farceli notare.
È un po’ come ritrovarsi a vivere nella Società Omerica.
Una solida ed indistruttibile Oikos nella quale sentirci al sicuro, riparati dai nostri valori di Coraggio, Forza e Supremazia.
Ma attenzione, esattamente come nella società cantata da Omero, non è necessario che questi valori siano effettivamente parte del nostro bagaglio o rappresentati inequivocabilmente dalle nostre azioni; l’unica cosa realmente importante è che si pensi che sia davvero così e che questa narrazione arrivi lontano, precedendo ed annunciando la nostra venuta.
È in modo analogo che i titoli che fanno parte della Dimensione Souls sono eletti a campioni assoluti del medium.
Non è necessario sottoporli a criteri di valutazione che possano definirli tali, basta che la narrazione che lo siano venga diffusa il più possibile.
“Il tuo nome e le tue imprese saranno note ai tuoi nemici ancora prima di averti conosciuto”.
È proprio così o, perlomeno, finché non ci sia chiesto di dimostrarlo per davvero.
La mosca bianca
Come tutte le fiabe ed i racconti che ci piace leggere e vivere all’interno dei nostri passatempi videoludici, anche questo mare di parole ed immagini che ho voluto condividere con voi arriva inevitabilmente verso il momento in cui deve rispettare le promesse fatte.
È un contratto non verbale di cui si parla spesso nei corsi d’arte figurativa.
Quando si apre un’opera, il fruitore viene sottoposto ad un contratto sottinteso che lo vincola alla permanenza all’interno dell’opera stessa a patto, però, che entro la conclusione dell’esperienza l’utente si senta libero, sollevato da questo vincolo, nel momento stesso in cui percepisce di aver ricevuto il messaggio che si cela all’interno del lavoro artistico.
Può essere una comunicazione chiara o criptica ma, indipendentemente da questo, colui che ne beneficia, deve sentirsi libero di potersene andare, di poter uscire da quel mondo illusorio nel quale si è ritrovato.
Vi è mai capitato di uscire da una sala cinematografica oppure di sfogliare l’ultima pagina di un libro e domandarvi “Bene, e quindi!?”.
Ecco, in quel caso il contratto non è stato rispettato, il messaggio non è arrivato ed avete concluso l’esperienza con la sensazione di aver perso del tempo oppure, ancora peggio, con l’insaziabile sete di qualcosa in più, qualcosa che pensate vi sia sfuggito ma che, in realtà, purtroppo non arriverà mai.
Con il capitolo finale di questo editoriale voglio proprio liberarvi da questo vincolo.
Rispettare il contratto invisibile che vi ho chiesto di sottoscrivere e concludere il messaggio che, neanche troppo cripticamente, ho anticipato nel titolo dell’articolo.
L’organizzazione di un evento come il The Game Awards richiede e comporta una mole di preparazione difficile da quantificare e di certo ardua da comprendere ma il risultato finale della valutazione che porta ad eleggere il Game of the Year, di contro, deve rappresentare, per forza di cose, un messaggio così immediato, limpido e cristallino da non poter essere frainteso.
“Vi stiamo dicendo qual è il prodotto videoludico migliore di quest’anno e questa decisione è insindacabile, inequivocabile e assoluta”.
Questo è il messaggio che i GOTY veicolano ed il risultato di questa affermazione di supremazia rimane impressa nella memoria dell’industria in modo imperituro.
Esistono numerose redazioni e premiazioni che eleggono il miglior gioco dell’anno (qui, i nostri Emotion Game Awards), ma quella che presiede Geoff Kieghley dal lontano 2004 (fino al 2013 nota come Spike Video Game Awards) è tacitamente considerata la più prestigiosa, tanto da essere spesso solennemente denominata come l’Oscar del videogame.
Dal 2004 al 2022 si sono succeduti numerosi vincitori, vediamoli assieme:
Spike Video Game Awards
- (2004) Grand Theft Auto: San Andreas
- (2005) Resident Evil 4
- (2006) The Elder Scrolls IV: Oblivion
- (2007) BioShock
- (2008) Fallout 3
- (2009) Uncharted 2: Among Thieves
- (2010) Red Dead Redemption
- (2011) The Elder Scrolls V: Skyrim
- (2012) The Walking Dead
- (2013) Grand Theft Auto V
The Game Awards
- (2014) Dragon Age: Inquisition
- (2015) The Witcher 3: Wild Hunt
- (2016) Overwatch
- (2017) The Legend of Zelda: Breath of the Wild
- (2018) God of War
- (2019) Sekiro: Shadows Die Twice
- (2020) The Last of Us: Part II
- (2021) It Takes Two
- (2022) Elden Ring
Indiscutibile eccellenza rappresentata da ognuno dei vincitori.
Se vi chiedessi, però, di trovare un comune denominatore (eccellenza a parte) tra tutti i titoli premiati col GOTY e, anzi, se vi domandassi di trovarne uno che abbia qualcosa di diverso dagli altri, quale scegliereste?
E per quale motivo?
Alcuni dei giochi presenti sono molto diversi tra loro e la risposta a questi quesiti potrebbe non essere univoca, per questo voglio aiutarvi.
It Takes Two
Titolo cooperativo assolutamente fuori dagli schemi nel quale, attraverso una profonda disamina psicologica dei protagonisti, si affronta il dramma familiare della separazione coniugale, dal punto di vista di una bambina.
Si tratta dell’unico gioco della lista ad essere inequivocabilmente e meravigliosamente un titolo Indie a tutti gli effetti.
La casa di produzione, Hazelight Studios, con It Takes Two è solo al secondo lavoro in ambito videoludico, avendo presentato qualche anno prima il pregevole A Way Out, sempre cooperativo ma dall’intreccio narrativo e dall’approccio completamente differenti ma, nonostante questo, ha dimostrato una capacità produttiva ed un’eccellenza nell’ambito della direzione artistica che le hanno permesso più che meritatamente di guadagnarsi il tanto ambito premio.
In che modo, quindi, la premiazione di Elden Ring si trova correlata al bellissimo titolo premiato l’anno precedente?
Se osserviamo la pagina del sito web The Game Awards del vincitore del Game of the Year vediamo un simpatico effetto di coriandoli che celebra meritatamente Elden Ring ma, guardando appena sotto al titolo della pagina, possiamo notare un breve paragrafo che indica e spiega la categoria, individuando alcuni parametri per farci comprendere il metro di giudizio che ha condotto la giuria alla valutazione finale:
GAME OF THE YEAR
“Recognizing a game that delivers the absolute best experience across all creative and technical fields.”
GIOCO DELL’ANNO
“In riconoscimento di un gioco che offre in assoluto la migliore esperienza in campo artistico e tecnico.”
Gli altri titoli candidati allo stesso premio erano i seguenti:
- A Plague Tale: Requiem
- God of War Ragnarök
- Horizon Forbidden West
- Stray
- Xenoblade Chronicles 3
Dal punto di vista artistico Elden Ring non ha chiaramente nulla da invidiare ai suoi avversari; abbiamo più volte descritto e ribadito come la direzione artistica che sottende al mondo di gioco sia quanto di più ispirato si sia visto negli ultimi anni ma è la valutazione relativa all’aspetto tecnico a lasciarci inevitabilmente con l’amaro in bocca.
Non voglio tornare nuovamente sull’argomento per spiegare in quali e quanti modi il titolo di FromSoftware dimostri un’arretratezza tecnica non degna di un 2022 e, soprattutto, non degna di un prodotto dalla portata mediatica, culturale e ludica di un qualsiasi titolo della Dimensione Souls.
Ciò che rattrista ed infastidisce e sul quale invece desidero tornare è l’aspetto puramente etico.
Il lavoro di FromSoftware, mi spiace dirlo, denota una pigrizia ed un pressapochismo di sviluppo difficili da ignorare.
È innegabile che gli Asset siano stati riciclati, che i bug ed i glitch siano stati riproposti (spesso nello stesso IDENTICO modo) dalle precedenti produzioni e che le texture e l’ottimizzazione non siano godibili neanche per la precedente generazione di videogame, non per una mancanza di budget o per la necessità di dedicare più tempo alla rifinitura ma semplicemente perché il prodotto era previsto uscisse così, dal momento che ai fan della saga è sempre andata bene che il prodotto fosse così e, anzi, da un certo e paradossale lato, si può pure considerare che ai fan è sempre piaciuto fosse così.
Grezzo, imperdonabile, svogliato.
Come se il gioco ti facesse un favore a concederti il privilegio di morirci male per la trentesima volta, non perché il boss è ostico, ma a causa dell’assurdo comportamento della maledetta telecamera in prossimità dei muri o perché era davvero necessario inserire una lunghissima fase platforming per goderti forse il miglior finale del gioco in una saga che è fortemente candidata ad essere la portavoce, in ogni sua iterazione, della peggiore meccanica di salto. PUNTO. che si sia mai vista. PUNTO. in ambito ARPG.
PUNTO.
E questo incredibile merito di eccellenza Tecnica ed Artistica affibbiata ad un titolo tecnicamente discutibile come Elden Ring risulta ancora più assurdo se accostato al prodotto che solo un anno prima portava a casa il medesimo premio, tanto da farlo sembrare la proverbiale mosca bianca.
Come se in un solo anno solare, il criterio di valutazione dovesse necessariamente sottoporsi ad un’operazione di smussamento per concedere al sempre auto-proclamatosi Re per acclamazione della sua esclusiva community una corona che, questa volta, sia effettivamente d’oro e non di cartone pieghevole.
Ecco dunque svelato il messaggio di questo mio lungo editoriale.
Ed ecco il sovrano del nostro regno di cellulosa e pixel, per questo 2023 solare.
Il Gioco dell’Anno
Volendo, finalmente, fornire una risposta per l’annoso quesito proposto nel titolo, perché Elden Ring è (probabilmente) un pessimo Game of the Year?
Il giudizio ai posteri?
E invece, fortunatamente, vi dico: NO.
Una delle maggiori lacune di questa industria e della letteratura che le gravita intorno è proprio la pigrizia derivante dalla non necessità di responsabilizzarsi per il lavoro appena concluso: sembra nessuno voglia accollarsi lo scomodo compito di chiedere agli sviluppatori di assumersi la responsabilità per il lavoro appena pubblicato.
Il proporre e vendere all’utenza titoli non completi, qualitativamente mediocri o anche non rispettosi delle promesse fatte in fase di sviluppo è concesso e tollerato (a volte quasi previsto e naturale) anche grazie al fatto che chi dovrebbe occuparsi di valutare oggettivamente si lascia irretire dalla necessità di raccogliere facili consensi piuttosto che dalla responsabilità di dover scrivere un contenuto trasparente, privo di orpelli, senza lasciarsi influenzare dal peso del nome e del retaggio di una specifica casa di sviluppo, piuttosto che un’altra.
Ecco, quindi, perché mi sento di affermare senza alcun dubbio che Elden Ring è (probabilmente) un pessimo Game of the Year.
È un titolo eccezionale, ma la sua straordinarietà si racchiude all’aver introdotto meccaniche futuribili solo ed esclusivamente se raffrontate alla dimensione della saga stessa e, purtroppo, solamente del tutto non innovative se paragonate al resto dell’industria.
Bello davvero l’Open World. Incredibile se pensato associato alla Dimensione Souls.
Incredibilmente Mainstream nel decennio in cui anche la nuova confezione di cereali alla frutta include una modalità a mappa aperta.
Elden Ring eccelle, senza ombra di dubbio.
Ma eccelle esclusivamente nell’essere sé stesso, ma non per questo si merita un premio. Il premio.
D’altronde, è ciò che facciamo tutti.
Come nella celebre fiaba di Hans Christian Andersen che ho citato alcuni capitoli più in alto, il nostro Re è nudo.
E questo semplicemente per il fatto che sarebbe davvero sconveniente da parte dei suoi sudditi fargli notare che i vestiti tessuti da sedicenti sarti abilissimi (in realtà impostori incapaci) siano, effettivamente, del tutto invisibili.
Come si conclude la fiaba?
Con il popolino che finge meraviglia dinnanzi ad abiti che è ben consapevole di non vedere per non rischiare di essere additato come incapace o stupido e con un bambino, inconfondibile voce dell’innocenza, che si agita tra la folla gridando: “Il Re è nudo!”, mentre i ciambellani, per sostenere ad oltranza la finzione, seguono il corteo affrettandosi a sorreggere un lungo strascico che, ahimè, non è mai esistito.
Diventa sempre più difficile capire se è l’arte che imita la vita o, come è sempre più convinto il sottoscritto, se sia la vita ad imitare l’arte.
Incapaci di scegliere, noi che l’arte amiamo viverla, ci limitiamo a raccontarvela sperando di avervi fornito sufficienti elementi per trarre le vostre conclusioni.
Alcune cose condivisibili, in una marea di deliri che non mi spiego.
Pigro, imperdonabile? Viviamo ancora nel mondo dove esiste Ubisoft e The Pokémon Company? Non voglio assolutamente fare benaltrismo ma mi chiedo se un gioco che cambia rispetto ai predecessori: sistema di progressione, elementi del combat system (ceneri di guerra, dual wielding, postura dei nemici…), level design dei dungeon principali, approccio dei boss… sia additabile come pigro al pari di uno Scarlatto e Violetto, come se FromSoftware facesse centinaia di milioni ad ogni uscita (il suo predecessore, sekiro, ha avuto un successo per nulla paragonabile a quello dei suoi fratelli più grandi e più piccoli) e si adagiasse quindi su dei dati di vendita predicibili, aspettandosi quindi che Elden Ring facesse i numeroni che stiamo vedendo.
Negare i problemi, gravissimi ed evidenti, dell’opera ultima di Miyazaki & co. nel reparto tecnico sarebbe folle, ma lo sarebbe al pari del negare il coraggio che il team ha avuto nel gettarsi in un terreno a cui noi consumatori siamo molto abituati, senza rendercene conto: l’open world.
Sottovalutare quest’aspetto significherebbe negare la fallibilità della transizione da un design lineare a uno completamente libero (non a caso cito l’ultima iterazione del monster collector più famoso della storia) e pretendere che From rivoluzioni tutto il resto, quando quel resto dovrebbe essere soprattutto il combat system, sarebbe come dire che l’ultimo Forza Horizon si stia adagiando troppo sul fatto di avere al proprio interno delle gare fra automobili; e che li abbiamo a fare i generi?
Se poi stiamo mettendo sullo stesso piano la rigidità di un sistema di coop che colpevolmente si nasconde dietro alla “firma autoriale” per rifiutarsi di ammodernarsi con gli stupendi momenti che sono le bossfight principali della campagna, allora il problema è che si è fraintesa una parte del famoso contratto tra artista e fruitore nominato nell’articolo, assieme quindi al tipo di esperienza che FromSoftware vuole offrire.
Lo dico da aperto e feroce critico di Dark Souls 2 e di alcune scelte fatte in Dark Souls 3 (per quanto sia, dal punto di vista soggettivo, uno dei miei giochi preferiti di sempre).
Quindi sì, sicuramente Elden Ring non è il messia che qualcuno predicava, ma non è neanche l’ennesimo banale prodotto di una software house che non ha voglia di creare, sù.
Ciao Michele,
ti ringrazio innanzi tutto per aver dedicato tempo alla lettura dell’articolo, dato che non è un testo breve, e per aver voluto inserire una risposta così articolata e riccamente argomentata.
Inizio con un’osservazione:
L’articolo in questione, come avrai sicuramente notato, è un pezzo di stampo Editoriale, una tipologia di articolo che ha come scopo quello di condurre il lettore alla riflessione riguardo ad uno specifico argomento, partendo da osservazioni che, inevitabilmente e per definizione del concetto editoriale stesso, hanno radice anche in opinioni personali.
Per poter dare struttura e solidità allo scritto, poi, è assolutamente necessario inserire riferimenti e dettagli che rimandino a valutazioni oggettive, in modo che lettore e scrittore possano avvicinarsi ad un linguaggio comune e, anche mantenendo opinioni discordanti, avere la possibilità di comunicare.
Per questo mi sono prodigato in ricerche e documentazioni, proprio per allegare all’articolo molto materiale esterno, non soggetto a discussione.
In breve, è ciò che ho fatto con questo mio pezzo:
Partendo da riflessioni personali ho aggiunto di volta in volta esempi e valutazioni oggettive affinché che la tesi da me proposta presentasse una sua solidità interna e in modo che, anche in caso di opinioni discordanti, per il lettore fosse chiaro ed incontestabile il messaggio di fondo.
Iniziando la tua risposta accusandomi di aver delirato, ahimè, rischi di spostare tutta la tua argomentazione su un piano completamente personale.
Diventa difficile, a quel punto, per chiunque risponda il poter condurre una discussione che sia equilibrata da entrambi i lati, dal momento che qualunque risposta dell’interlocutore, per quanto oggettiva sia, si scontrerebbe sempre con una controparte prevenuta e pregiudizievole.
Fatte queste premesse, vado a rispondere.
Affermi di non voler scadere nel benaltrismo ma hai, effettivamente, citato altre compagnie (Pokémon Company, Ubisoft) per sostenere la tesi, quindi mi chiedo: perché le hai menzionate?
Assecondando la tua (giustissima) intenzione di non scadere in questo misero stratagemma giornalistico, ti dico che Elden Ring non si è dimostrato pigro NONOSTANTE altri titoli abbiano fatto peggio, ma si è dimostrato pigro AGGIUNGENDO al suo carniere elementi che nel mondo degli ARPG esistono non semplicemente da anni ma ben da Generazioni videoludiche.
L’aver negato per numerose iterazioni la benché minima miglioria, non rende quelle (finalmente) aggiunte epocali o più memorabili di quanto non lo siano di per sé e in base a ciò che rappresentano nell’industria nel suo complesso.
Hai citato Ceneri di Guerra, Dual Wielding, Postura dei nemici ed Open World.
Aggiunte sicuramente degne di nota per una serie che ha sempre copiato sé stessa (a volte male, come tu stesso hai giustamente indicato in DS2) ma elementi davvero miseri se considerati rispetto all’evolversi del medium nel suo complesso.
Ma andiamo ad analizzarli nel dettaglio:
– Ceneri di Guerra: Aggiunta molto interessante ma, analogamente al reparto incantesimi, troppe per riuscire ad equilibrare le molteplici combinazioni disponibili. Davvero divertenti da usare ed un miglioramento notevole per il brand, sia chiaro, ma denotano ancora una volta la non volontà della produzione di impegnarsi nella rifinitura dell’ennesima meccanica che denota più attenzione alla quantità che alla qualità.
– Dual Wielding: Sul serio? Premiamo qualcuno che aggiunge la possibilità di utilizzare DUE armi contemporaneamente in un gioco basato sul Combat System?
Nel 2022?
Se il motivo per premiarlo è perché non lo ha mai aggiunto prima, allora si ritorna al discorso precedente: negare per anni dovuti miglioramenti non li rende memorabili quando finalmente vengono pubblicati.
– Postura dei Nemici: Meccanica molto interessante ed ereditata da Sekiro, ma implementata a metà. Un vero peccato poiché il sistema di Sekiro è il migliore mai visto in un prodotto FromSoftware e, azzarderei, tra i migliori in assoluto mai visti in ambito Action.
– Open World: Indubbiamente un mondo aperto enorme, artisticamente pregevole ma, eliminando la meccanica dei nemici che vagano per la mappa con lo scopo di ucciderti, inequivocabilmente vuoto.
Ma vuoto per davvero.
Se gridiamo al miracolo per un Open World bello ma basico come quello di ER solo perché (e ritorniamo sempre sullo stesso punto) aggiunto ad una saga che non lo ha mai visto, cosa avremmo dovuto fare quando è uscito quel dannatissimo capolavoro di Super Mario Odyssey?
Non si è Mai e dico MAI visto un Open World così ricco, minuziosamente lavorato ed ispirato come quello di Odyssey (forse solo Zelda: BOTW) ma, seguendo il medesimo ragionamento, dato che si è abbinato un Open World ad una saga che non lo ha mai visto, avrebbe dovuto essere ricordato negli annali come Il Messia del medium videoludico.
Ma, oltre ad essere candidato come GOTY ed aver ricevuto voti stellari, ce ne siamo tutti dimenticati abbastanza in fretta.
Ho deciso di coniare il termine “Dimensione Souls” non a caso. Poiché, quando si parla di un prodotto Souls, sembra sempre di trovarsi sul punto di varcare una soglia oltre la quale le dimensioni del bello, del concesso e dell’eccellente assumono una scala ridotta, un diverso metro di valutazione per nulla oggettivo.
Come se i Souls fossero un bimbo con problemi di apprendimento che ha bisogno che il mondo lo valuti diversamente da tutto il resto. Premiandolo smodatamente per essere riuscito finalmente a contare quando gli altri bambini, contemporaneamente, hanno iniziato il calcolo differenziale.
Fino al momento in cui, alzando il velo e guardando sotto al cofano, ci si accorge che in realtà il bambino non ha mai avuto problemi di apprendimento ma, anzi, ha sempre avuto enormi potenzialità ma non ha mai voluto esprimerle per il semplice fatto che la community (come irretita da un potente incantesimo) lo ha sempre acclamato nonostante (anzi, oserei dire, grazie a) le sue innumerevoli ed evidenti lacune di design.
Semplicemente, il bambino non lo fa, perché nessuno si è mai sognato di chiedergli di farlo, e lo ha sempre acclamato per questo.
Perché sforzarsi?
Ho notato nella tua risposta numerosi sottintesi sul fatto che io possa essere parecchio Biased a proposito di Elden Ring o sull’eventualità che volessi produrre facile sensazionalismo, facendo la voce grossa e fuori dal coro ma, come ho scritto all’inizio dell’articolo, io stesso mi sono occupato della recensione, valutandolo con un eccellente 4.25/5.
Ti consiglio davvero di leggerla.
Il gioco mi è piaciuto molto e le quasi 400 ore accumulate al suo interno lo dimostrano.
Il pensiero profondo dietro all’editoriale è la necessità di chiamare il lettore alla riflessione riguardo all’industria di valutazione e premiazione in ambito videoludico che, forse, non sta andando nella direzione giusta.
Concludo riportando l’attenzione su una delle ultime cose da me scritte:
Il GOTY si prefigge di premiare il titolo che, nel corso dell’anno, ha saputo dimostrare assoluta eccellenza sia in ambito artistico che sul piano tecnico.
Dal lato artistico, assolutamente ineccepibile e quasi magistrale.
L’aspetto tecnico, invece, purtroppo non è nemmeno sufficiente.
Da qui, i miei dubbi in merito all’oggettività di questa scelta.
PS: grazie ancora se hai letto fin qui e, anzi, ti invito a rispondere nuovamente per tenere viva la discussione.
È raro trovare utenti che abbiano volontà e dedizione per argomentare così approfonditamente quindi mi piacerebbe approfittarne 😊